lunedì 27 febbraio 2012

La camorra di Nello Liberti diventa Musica: ma viene indagata




Nello Liberti con la sua canzone O’ capoclan è in questi giorni nel mirino dei media e dei giudici.

O’ capoclan è n’omm serio, che è cattivo nun è o ver (“Il capoclan è un uomo serio, non è vero che è cat­tivo”) — nei giorni scorsi ha fatto scandalo, mentre lui è indagato per con­corso in istigazione a delinquere per il contenuto della melodia che dipinge la camorra con un'accezione positiva.

Sembra tutto abbastanza lineare a una prima analisi, se non fosse che è da più di quindici anni che a Napoli si incidono e si cantano canzoni sulla camorra. Gino Ferrante, con A società, racconta la vita di solitidine degli affiliati : giudi­cati dalle persone e dalla legge “si nascondono dai figli e dalle mogli”; rac­conta anche della famiglia organizzata dove so tutt’ quant frate, e nessuno deve tradire. Tra i temi ricorrenti c'è la legge certa dei clan, la punizione per l’infamia e la capacità di farsi forza l’uno con l’altro. 

Inoltre si scopre che non solo a Napoli, ma anche a Roma, fino in sicilia e in calabria la canzone di malavita è un classico.
Basti pensare a Guapparia, la canzone di camorra del repertorio antico più famosa, considerata ormai un classico e cantata anche dai grandi maestri come Murolo. Narra la storia di un boss che fa una serenata alla sua bella e, proprio perché si è innamorato, non può più essere guappo. È diventato un molle e invita l’onorata società a cacciarlo dall’organizzazione. Poi venne Mario Merola con Serenata calibro 9, il rac­conto di un vecchio guappo camorrista che aveva deciso di abbandonare ma che, quando i criminali entrano in casa della figlia, decide di vendicarsi. Ma il vero padre della canzone neomelodica che racconta gesta di camorra è Tommy Riccio. Il suo Nù latitante del 1993 — considerato il primo video musicale che racconta una vicenda di camorra — è la storia della sof­ferenza di un latitante, che smette di esistere e scappa da tutto e tutti; non può fidarsi che di un amico per portare un regalo ai figli. E in questa can­zone centinaia di persone (non solo i boss noti alle cronache vivono la diffi­coltà della latitanza, ma centinaia di piccoli affiliati e le loro famiglie) si riconoscono. Ancora oggi è mandata diffusamente nelle radio locali di tutto il mezzogiorno italiano.

Queste canzoni sono canatate da interpreti dai look più improbabili che con capelli assurdi, sopracciglia disegnate, il petto depilato e sempre abbronzato, rasentano quasi il ridicolo. Ma sono proprio loro, con voci incantevoli, a volte mediocri oppure roche, lo specchio del paese: crimine e faide, onore e affiliazione sono celebrate secondo un piano, in cui il concetto di giustizia e morale si fondono in un’etica nuova, non universale ma particolare, modellata sul gruppo.
È sbagliato ammazzare, ma è neces­sario.
È sbagliato darsi al crimine, ma lo si può fare con onore.
La ric­chezza è necessaria, e per averla devi rischiare.
Questa è la controversa realtà che raccon­tano queste canzoni: esiste un percorso necessario, dovuto, tragico.

Questo è il genere musicale che al Nord viene chiamato "Napoli", che spesso viene ascoltato con lo stupore e il disprezzo tipici dell'ingenua illusione che il Sistema sia una malattia autoimmune che non può contagiarci.

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